c70c660446f86f380e51a228_pa1151.jpg Paul Lachine

Più commercio per combattere la fame nel mondo

GINEVRA – Il recente rincaro dei prezzi dei generi alimentari e i crescenti timori sulla sicurezza alimentare hanno messo in allarme il mondo. L’eventualità di non potere mettere del cibo in tavola lascia i genitori in un profondo senso di incertezza. E, dal momento che le persone più povere al mondo spendono una fetta elevata dei propri redditi in generi alimentari, sono proprio loro le più colpite, facendo così crescere il rischio che anni di progressi nella riduzione della povertà possano svanire nel nulla.

I fattori apparentemente invariabili che hanno generato questi rincari record dei prezzi alimentari – il passaggio alle diete a maggiore apporto proteico in molti paesi, la crescita demografica, un maggiore uso di biocarburanti e i cambiamenti climatici – suggeriscono che i prezzi alle stelle delle derrate alimentari resteranno a lungo tali. In assenza di soluzioni in grado di alleviare la crescente pressione sugli approvvigionamenti, la fame e la malnutrizione nel mondo saranno sempre più pressanti.

Ovviamente, devono aumentare gli investimenti nella produzione alimentare, nel medio e nel lungo periodo. Ma esiste oggi una ricetta politica a disposizione dei leader, che potrebbe aiutare a rimuovere gli ostacoli sul fronte dell’offerta: far crescere il commercio. Questa proposta potrebbe sconcertare alcuni, ma sottintende una logica chiara e inconfutabile.

Il commercio è la cinghia di trasmissione attraverso la quale l’offerta si regola in base alla domanda. Consente di trasferire i prodotti alimentari dai paesi ricchi a quelli poveri. Consente ai paesi che possono produrre generi alimentari in modo efficace di spedire tali beni in quei paesi che patiscono le limitazioni sulle risorse che ostacolano la produzione alimentare.

Ad esempio, l’accesso agli approvvigionamenti alimentari internazionali ha consentito all’Arabia Saudita di interrompere il suo trentennale programma di sostegno alla coltivazione del grano. Considerato il peso finanziario del programma, e cosa ancora più importante, l’eccessivo sfruttamento delle esigue risorse idriche, i sauditi hanno deciso di abbandonare gradualmente tutti i sussidi entro il 2016.

Una volta interrotta la cinghia di trasmissione del commercio internazionale alla base di tali decisioni, il risultato non può essere altro che la turbolenza dei mercati. È per questo motivo che l’Indonesia, uno dei maggiori produttori al mondo di riso e granoturco, ha recentemente deciso di ridurre le barriere commerciali alle importazioni agricole.

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Oggi, il commercio dei prodotti agricoli è esposto a una distorsione maggiore di quanto non lo sia il commercio di altri beni. I sussidi che alterano il commercio, gli elevati dazi sulle importazioni e le restrizioni sull’export fungono da ostacolo negli ingranaggi della cinghia di trasmissione e rendono più difficile e dispendiosa l’immissione di prodotti alimentari sul mercato – e quindi sulle tavole delle famiglie.

Le restrizioni sull’export, ad esempio, giocano un ruolo diretto nell’aggravamento delle crisi alimentari. In effetti, secondo alcuni analisti tali restrizioni sarebbero state la causa principale dei rincari alimentari del 2008. Secondo la Food and Agriculture Organization delle Nazioni Unite, ci sarebbero proprio le restrizioni dietro all’impennata del prezzo del riso nel 2008, quando il commercio internazionale del riso registrò un calo del 7% (circa due milioni di tonnellate) dal balzo record del 2007. Analogamente, il rincaro del prezzo dei cereali registrato nel 2010-2011 è strettamente correlato alle restrizioni sull’export imposte dalla Russa e dall’Ucraina dopo essere state colpite da una grave siccità.

Sono in molti a restare sorpresi quando si rendono conto di quanto siano davvero bassi i mercati internazionali dei chicchi di riso. Solamente il 7% della produzione globale di riso viene distribuito a livello internazionale, mentre solo il 18% della produzione di grano e il 13% di mais viene esportato. I controlli aggiuntivi sul commercio sono una minaccia seria per i principali paesi importatori di generi alimentari, dove i governi temono che tali misure possano portare alla fame.

Coloro che impongono tali restrizioni seguono una logica condivisa: non voler far soffrire di fame le proprie popolazioni. Allora la domanda è: quali politiche alternative potrebbero soddisfare tale obiettivo? Risposta: più produzione alimentare a livello mondiale, più reti di sicurezza sociali, più aiuti alimentari e, possibilmente, riserve alimentari più ampie.

Concludere le trattative del Doha Round sulla liberalizzazione del commercio potrebbe in parte essere una risposta alle crisi dei prezzi alimentari, nel medio e nel lungo periodo, per smantellare le restrizioni e le distorsioni che hanno infangato l’immagine sul fronte offerta. Un accordo sul Doha Round ridurrebbe fortemente i sussidi del mondo ricco, che hanno legato le mani alla capacità produttiva del mondo in via di sviluppo, e che nel caso di alcune materie prime hanno letteralmente spinto i produttori di questi paesi fuori dal mercato. I sussidi della peggior specie – quelli per l’export – verrebbero a cadere.

Un accordo sul Doha Round abbasserebbe anche i dazi doganali, pur con una certa “flessibilità”, così rendendo i beni alimentari più accessibili ai consumatori. A livello globale, vorrebbe dire produrre più cibo dove la produzione è più efficiente, e creare un terreno di gioco internazionale, livellato, più equo.

In parole povere: quando si tratta di affrontare la sicurezza alimentare, il commercio è una soluzione, non un problema.

https://prosyn.org/70BFgmQit