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Ripensare la crescita e rivalutare lo stato imprenditore

LONDRA – Dai dibattiti e dai manifesti politici di alto livello alle notizie di tutti i giorni, ovunque c’è ansia per la crescita economica. In Germania, l’ultimo bilancio del governo individua tra le priorità assolute una crescita più sostenuta. In India, i leader nazionali sono impazienti di restituire al loro paese la posizione di economia in più rapida crescita al mondo. In Cina, dove incombe la prospettiva della deflazione, il governo è indubbiamente preoccupato di mancare l’obiettivo di crescita del 5% per l’anno in corso.     

Keir Starmer, leader del partito d’opposizione laburista britannico, ha promesso di far diventare il Regno Unito l’economia a più alta crescita nel G7 se andrà al potere, e ambizioni simili sono state espresse dai conservatori al governo (ricordiamo l’ormai famoso mantra dell’ex primo ministro Liz Truss: “crescita, crescita e ancora crescita”). 

Ma collocare la crescita al centro della politica economica è un errore. Per quanto importante, in termini astratti essa non può rappresentare un obiettivo o una missione coerente. Prima d’impegnarsi verso obiettivi specifici (che siano la crescita del Pil, la produzione complessiva, o altro), i governi dovrebbero concentrarsi sulla direzione dell’economia. Dopotutto, che senso ha un tasso di crescita elevato se il suo raggiungimento implica condizioni di lavoro inadeguate o l’espansione del settore dei combustibili fossili?

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