CAMBRIDGE – Per circa trent’anni, imprese e governi in tutto il mondo hanno agito pensando che la globalizzazione economica e finanziaria sarebbe andata avanti a ritmo serrato. Viste le tensioni che negli ultimi anni hanno scosso l’ordine internazionale, però, il concetto di deglobalizzazione – la dissociazione tra commercio e investimenti – ha guadagnato sempre più consenso tra le famiglie, le aziende e i governi. I dati a disposizione, tuttavia, suggeriscono che la globalizzazione non sta finendo, bensì cambiando.
Non molto tempo fa, sembrava che non vi fossero limiti all’integrazione economica e finanziaria a livello mondiale. Per decenni, l’impressione è stata che i vantaggi della globalizzazione fossero chiari e indiscutibili. L’interconnessione tra produzione, consumi e flussi d’investimento offriva ai consumatori un’ampia gamma di opzioni a prezzi interessanti, consentiva alle imprese di espandere i propri mercati e migliorava l’efficienza delle loro filiere. I mercati finanziari internazionali avevano esteso l’accesso al credito riducendone i costi per i soggetti sia pubblici che privati. I governi mondiali avevano stabilito quelle che sembravano una serie di partnership vantaggiose per tutti. E la tecnologia – compresa la recente accelerazione verso il lavoro a distanza – aveva fatto apparire i confini nazionali poco rilevanti.
Ma se la globalizzazione ha consentito un miglior funzionamento dei mercati, i policymaker hanno perso di vista le sue nefaste conseguenze distributive. Molti paesi e comunità sono rimasti indietro, contribuendo a creare un diffuso senso di emarginazione e di alienazione.
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