c0d3ca0346f86fa0079f4437_pa3437c.jpg Paul Lachine

Gli allarmisti della Business Roundtable

CHICAGO – Quante volte capita di vedere i capitalisti fare il diavolo a quattro e persino rivolgersi a un tribunale per difendere il principio secondo cui i proprietari legittimi non riescono ad esercitare alcun controllo sulle loro proprietà? Non sta succedendo in America Latina o nella Svezia socialista, ma negli Stati Uniti d’America.

I capitalisti in questione non sono altro che l’élite dell’America imprenditoriale: la Business Roundtable, un potente gruppo di Ceo delle principali multinazionali Usa, che promuove politiche pro-business. L’oggetto del contendere è il tanto dibattuto caso della regola relativa all’«accesso degli azionisti alle deleghe», adottata ad agosto dalla Sec (l’autorità di controllo dei mercati finanziari americani) per affrontare la sostanziale mancanza di responsabilizzazione dei consigli di amministrazione delle corporate americane.

In base al sistema attuale, i consigli di amministrazione societari sono entità che si autoperpetuano. Per essere eletti, un membro del consiglio deve essere nominato dal consiglio di amministrazione corrente, laddove notevole influenza è esercitata dagli amministratori delegati. Di conseguenza, i membri del consiglio sono in debito con i manager che direttamente o indirettamente li nominano – e quindi non sono proprio motivati a dissentire, onde evitare l’esclusione.

Anche i consiglieri indipendenti, spesso acclamati quale soluzione di tutti i problemi, sono soggetti alla stessa pressione. Per cambiare questo trend, gli investitori istituzionali devono avere il diritto di proporre la propria lista di candidati. La possibilità di essere scartati in un’elezione reale fa sì che naturalmente i membri del consiglio siano responsabili del proprio operato nei confronti degli azionisti, così indirettamente responsabilizzando anche gli amministratori.

La regola della Sec ha tentato di garantire agli investitori istituzionali questo diritto. E lo ha fatto in modo piuttosto mite. Escluse le società con una quotazione pubblica inferiore a 75 milioni di dollari, gli azionisti che intendono proporre una lista di candidati devono detenere una quota minima di partecipazione nella misura del 3% del capitale sociale per almeno tre anni consecutivi.

Questo non è un ostacolo da poco. Nel giugno 2009, il maggiore fondo pensione americano (Calpers) deteneva meno dello 0,3% delle grandi società quali Coca Cola e Microsoft. Di conseguenza, occorreva coordinare dieci fondi di questo genere per raggiungere il quorum. E anche questo non sarebbe bastato. Il fondo pensione medio ha un turnover annuale del 70%, che significa che la probabilità di detenere un titolo per tre anni consecutive è inferiore al 3%. Quindi, per raggiungere quel 3% e conservarlo per tre anni consecutivi, bisognerebbe mettere insieme centinaia di istituzioni.

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Ma anche questo cauto tentativo di rafforzare la responsabilizzazione ha generato una furiosa reazione da parte della Business Roundtable. «Dato che il nostro paese lavora per emergere da questa recessione», così scrive il direttore esecutivo dell’associazione, «le società americane devono concentrarsi sulla creazione di posti di lavoro e sulla promozione dell’innovazione per riprendere un cammino di crescita economica sostenuta. Questa intrusione senza precedenti in ambiti storicamente riservati agli stati intralcerebbe il lavoro degli amministratori e dei CdA, taglierebbe fuori la stragrande maggioranza di azionisti retail e inasprirebbe l’attenzione a breve termine che ora è considerata una delle cause scatenanti della crisi finanziaria».

Per ironia, nel 2007, in risposta a una precedente proposta della SEC di garantire l’accesso degli azionisti alle deleghe, Wachtell, Lipton, Rosen ampamp; Katz, uno studio legale famoso per le posizioni anti-diritti degli azionisti, utilizzò l’argomento opposto: «Nessuna crisi del mondo reale ha mostrato che l’attuale sistema necessiti di una revisione radicale. A distanza di cinque anni dai crac di Enron e WorldCom, i mercati dei capitali sono ben inseriti in una spirale di rigore senza precedenti».

In altre parole, se il mercato azionario funziona, non dovremmo cambiare le regole del gioco che sono responsabili di tale successo. Ma se il mercato azionario non funziona, le regole del gioco non c’entrano e non possiamo permetterci di cambiarle. È un strano modo di concepire la responsabilizzazione.

Per bloccare la regola, la Business Roundtable ha presentato una petizione alla Corte d’Appello Usa al fine di invalidarla. La regola non veniva revisionata da anni, ma la Business Roundtable ha accusato la SEC di non essersi «impegnata in una regolamentazione basata su prove di efficacia» per non aver valutato gli effetti della norma su «efficienza, competizione e formazione del capitale», ai sensi della legge.

Questa è solo una scusa. In Italia è in vigore una legge simile dal 2005, e non sembra aver intaccato efficienza, competizione o formazione del capitale. Si intravede però un primo segnale, ovvero i membri del consiglio nominati da investitori istituzionali ora fronteggiano coraggiosamente il management quando si tratta degli eccessivi compensi degli amministratori. È questa la rivoluzione che tanto teme la Business Roundtable?

Sfortunatamente, la tattica dell’allarmismo dispiegata dalla Business Roundtable ha funzionato. A seguito dell’azione legale, la SEC ha sospeso non solo l’applicazione della regola che affidava alle società il potere di garantire l’accesso agli azionisti qualificati, ma anche una regola che consentiva agli azionisti di introdurre con maggiore facilità un regolamento che garantisse loro l’accesso, anche se la Business Roundtable non aveva impugnato tale regola. È una grande vittoria per gli amministratori societari, ma un’enorme sconfitta per i principi che dovrebbero guidare il capitalismo.

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