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La Crisi del Dollaro

BERKELEY – Il primo anno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è stato, se non altro, un serbatoio colmo di sorprese.

Una delle sorprese principali, negli ambienti da me frequentati, è stata la debolezza del dollaro. Tra gennaio 2017 e gennaio 2018, l’ampio tasso di cambio effettivo del dollaro è sceso dell’8%, prendendo alla sprovvista molti esperti. Includo me stesso tra coloro che sono stati “spiazzati” (altri possono decidere se qualificarmi come esperto).

Mi aspettavo, infatti, che le riduzioni delle imposte e la normalizzazione dei tassi d’interesse avrebbero spostato il mix verso politiche fiscali più morbide e politiche monetarie più restrittive, la combinazione che aveva portato al rialzo del dollaro negli anni di Reagan-Volcker. I cambiamenti fiscali, incoraggiando le imprese statunitensi a rimpatriare i loro profitti, avrebbero dato via libera ad un’ondata di afflussi di capitali, spingendo ancora più in alto il dollaro. I nuovi dazi, che rendevano le importazioni più costose e spostavano la domanda verso prodotti nazionali, avrebbero richiesto effetti compensativi in un’economia di quasi piena occupazione al fine di orientare di nuovo la domanda verso fonti estere. La compensazione più plausibile era, ovviamente, la rivalutazione del tasso di cambio reale, che poteva verificarsi solo attraverso l’inflazione o, più verosimilmente, con un dollaro più forte.

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