ef7c1e0446f86f500ee0dc01_pa3259c.jpgee886a0246f86f6804e667017d14700246f86f6804b16a01 Paul Lachine

La Globalizzazione della Protesta

NEW YORK – Il movimento di proteste che ha avuto inizio in Tunisia a gennaio, e che si è poi allargato prima all’Egitto e poi alla Spagna, ha raggiunto adesso una dimensione globale, tanto che Wall Street e diverse città americane sono state bloccate. Oggigiorno la globalizzazione e la tecnologia moderna permettono ai movimenti sociali di valicare i confini così velocemente come solo le idee possono fare. E la protesta sociale ha trovato terreno fertile dappertutto: una sensazione di fallimento del “sistema” e la convinzione che perfino in una democrazia il processo elettorale non riesca a mettere le cose a posto – quantomeno non senza una forte pressione dalla strada.

A maggio, ho visitato i luoghi delle proteste tunisine; a luglio, ho parlato con gli indignados spagnoli; da lì sono andato ad incontrare i giovani rivoluzionari egiziani in piazza Tahrir al Cairo; e, poche settimane fa, ho parlato con i manifestanti di “occupiamo Wall Street” a New York. Vi è un tema conduttore, che viene espresso dal movimento OWS in una semplice frase: “Siamo il 99%.”

Lo slogan fa eco al titolo di un articolo che ho pubblicato recentemente, intitolato “Del 1%, per l’1%, e dall’1%,” dove descrivo l’enorme aumento delle disuguaglianze negli Stati Uniti: l’1% della popolazione controlla più del 40% della ricchezza e riceve più del 20% del reddito. E coloro che si trovano in questo strato rarefatto spesso sono ricompensati così generosamente non perché sono più utili alla società - i bonus ed i bailout hanno completamente rimosso la possibilità di usare questo argomento come giustificazione per le disuguaglianze – ma perché sono, per dirla francamente, dei “rent-seeker” di successo (e a volte anche corrotti).

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