People walk past the New York Stock Exchange Drew Angerer/Getty Images

Il capitalismo è fallito?

NEW YORK – All'epoca del crollo della Lehman Brothers, avvenuto cinque anni fa, l'agenzia di rating Standard & Poor's aveva mantenuto il livello "A" per la banca di investimento fino a sei giorni prima del fallimento, mentre Moody's aveva aspettato addirittura fino al giorno prima per tagliare il rating. Come è possibile che agenzie di rating e banche d'investimento così rispettabili abbiano commesso un simile errore di giudizio?

Gran parte della responsabilità della crisi va attribuita ai regolatori, ai banchieri e alle agenzie di rating. Tuttavia, lo sfiorato tracollo non è stato tanto frutto del fallimento del capitalismo, quanto della mancata comprensione, da parte dei modelli economici contemporanei, del ruolo e del funzionamento dei mercati finanziari – e, più in generale, dell'instabilità – nelle economie capitaliste.

Tali modelli hanno fornito il fondamento scientifico delle decisioni politiche e delle innovazioni finanziarie che hanno aumentato le probabilità, se non l'inevitabilità, della peggiore crisi dai tempi della Grande Depressione. Dopo il crollo della Lehman, l'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan ha ammesso davanti al Congresso degli Stati Uniti di aver "trovato una falla" nell'ideologia secondo cui l'interesse personale proteggerebbe la società dagli eccessi del sistema finanziario. Ma ormai il danno era fatto.

Questa convinzione può essere riconducibile alla teoria dominante sulle cause dell'instabilità dei prezzi degli asset, la quale tiene conto dei rischi e delle fluttuazioni dei prezzi degli stessi, come se il futuro fosse una meccanica ripetizione del passato. Secondo i modelli degli economisti contemporanei, gli operatori di mercato spinti dal tornaconto personale non avrebbero accettato prezzi di immobili e di altri asset a livelli chiaramente eccessivi nel periodo precedente la crisi. Di conseguenza, queste fluttuazioni sono state interpretate come un sintomo di irrazionalità degli operatori stessi.

Tale errata supposizione – cioè che le decisioni motivate dal tornaconto personale seguano regole meccaniche – ha suffragato la creazione di strumenti finanziari sintetici e ha legittimato, per ragioni apparentemente oggettive, la loro immissione sul mercato dei fondi pensione e in altre istituzioni finanziarie a livello mondiale. Inaspettatamente, le economie emergenti con mercati finanziari meno sviluppati sono sfuggite a molte delle conseguenze più eclatanti di tali innovazioni.

La fiducia degli economisti contemporanei nelle regole meccaniche per capire e influenzare i risultati economici si estende anche alla politica macroeconomica e spesso fa riferimento a un'autorità come John Maynard Keynes, che però non sarebbe stato d'accordo. Keynes aveva compreso sin da subito la fallacia dell'applicazione di tali regole. "Ci siamo infilati in un pasticcio colossale", aveva avvertito, "avendo perso il controllo di una macchina delicata, di cui non conosciamo i meccanismi".

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Nella Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Keynes cercò di fornire la base logica per affidarsi a una politica fiscale espansiva al fine di aiutare le economie capitaliste avanzate a uscire dalla Grande Depressione. Tuttavia, dopo la Seconda guerra mondiale, i suoi successori misero a punto un programma molto più ambizioso. Invece di perseguire misure volte a contrastare fluttuazioni economiche eccessive – come la grave recessione degli anni '30 – le cosiddette politiche di stabilizzazione hanno puntato su misure che miravano al mantenimento della piena occupazione. Secondo i "nuovi modelli keynesiani" che sono alla base di queste politiche, il "vero" potenziale di un'economia – e, quindi, il cosiddetto output gap che la politica espansiva dovrebbe colmare per raggiungere la piena occupazione – può essere misurato con una certa precisione.

Detto francamente, però, la convinzione che un economista possa conoscere in anticipo l'andamento  dei risultati aggregati, e quindi predire il potenziale livello dell'attività economica futura, è fasulla. Le proiezioni – notoriamente imprecise – relative ai tempi e agli effetti dello stimolo economico del 2008 sulla disoccupazione, ricavate dal modello macroeconomico della Fed, ne sono un esempio eclatante.

Eppure, l'opinione dominante nella professione economica è che tali modelli meccanicistici continuino a essere validi. Il premio Nobel Paul Krugman, ad esempio,sostiene che, secondo un calcolo approssimativo basato su una "macroeconomia da manuale", lo stimolo fiscale del 2009, pari a 800 miliardi di dollari, avrebbe dovuto essere tre volte maggiore.

Chiaramente, serve un nuovo manuale. La questione non è se lo stimolo fiscale sia stato efficace, o se un maggior stimolo avrebbe aiutato di più, ma se i politici debbano o meno basarsi su modelli che considerano il futuro come una meccanica ripetizione del passato. Ad esempio, il crollo del mercato immobiliare, che ha lasciato milioni di proprietari americani con l'acqua alla gola, non rientrando tra i modelli da manuale ha reso impossibile un calcolo preciso dello stimolo fiscale. Si dovrebbe guardare con sospetto chi afferma che tali modelli danno scientificità alla politica economica.

Ma rinunciare a quello che Friedrich von Hayek ha definito la "pretesa di conoscenza esatta" degli economisti non vuol dire escludere la possibilità che la teoria economica possa dare un contributo ai processi politici. In realtà, il riconoscimento dell'imperfezione della conoscenza da parte di economisti, politici e operatori di mercato ha importanti implicazioni per la comprensione dell'instabilità finanziaria e di ciò che lo Stato può fare per mitigarla.

Le oscillazioni dei prezzi degli asset non dipendono dall'irrazionalità degli operatori, ma dal fatto che questi tentano di controllare il futuro flusso di profitti derivanti da progetti di investimento alternativi, pur avendone una conoscenza imperfetta. L'instabilità del mercato è, quindi, intrinseca al processo di allocazione del risparmio nelle economie capitaliste. Per questo, i politici dovrebbero  intervenire non in virtù di una una conoscenza superiore del valore degli asset (che in realtà non ha nessuno), ma perché gli operatori di mercato, spinti dall'interesse personale, non interiorizzano gli enormi costi sociali connessi con gli eccessivi rialzi e ribassi dei prezzi.

Sono queste fluttuazioni, e non le deviazioni da qualche immaginario valore "reale" – sia esso degli asset o del tasso di disoccupazione – che, secondo Keynes, i politici dovrebbero cercare di mitigare. A differenza dei loro successori, Keynes e Hayek hanno capito che la conoscenza imperfetta e i cambiamenti inattesi fanno sì che le regole della politica, così come le variabili che ne sono alla base, acquistino e perdano rilevanza in maniera imprevedibile.

Questo modo di pensare sembra essere tornato a guidare i processi politici nella patria di Keynes. Come ha dichiarato l'ex governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King: "La nostra comprensione dell'economia è incompleta e in continua evoluzione... Descrivere la politica monetaria in termini di regole fisse ricavate da un modello economico noto vuol dire ignorare tale processo di costante apprendimento". Il suo successore, Mark Carney, ha fatto sua questa visione, respingendo la regola fissa a favore di una discrezionalità vincolata, basata su una selezione di indicatori chiave di riferimento.

Anziché cercare di centrare obiettivi numerici precisi, sia per l'inflazione che per la disoccupazione, la politica deve puntare a mitigare le oscillazioni eccessive; in tal modo, risponde ai problemi reali e non alle teorie (che tali problemi possono aver reso obsolete). Se siamo onesti riguardo alle cause della crisi del 2008 – e seriamente intenzionati a evitare che si ripeta – dobbiamo accettare che l'analisi economica non è in grado di fornire tutte le risposte; solo così potremo beneficiare appieno di quelle che invece può darci.

Traduzione di Federica Frasca

https://prosyn.org/hKP9VWwit