La trappola della Fed

NEW HAVEN – Nel tentare di uscire dalla sua politica monetaria non convenzionale, la Federal Reserve americana deve fare i conti con la disparità tra il successo della politica nel prevenire il disastro economico e il suo fallimento nel rilanciare una robusta ripresa. Nella misura in cui tale scossone ha portato enormi eccessi nel mercato finanziario, l’uscita sarà del tutto problematica per i mercati – e per l’autorità monetaria americana fissata sui mercati.

L’attuale dilemma della Fed affonda le radici in un cambiamento radicale nel modo e nella prassi del sistema bancario centrale. Le politiche monetarie convenzionali, realizzate per soddisfare il duplice mandato della Fed di stabilità dei prezzi e piena occupazione, non sono in grado di affrontare i rischi sistemici delle bolle azionarie e creditizie, per non parlare delle recessioni di bilancio derivanti dallo scoppio di tali bolle. Ciò è diventato dolorosamente evidente negli ultimi anni, quando le banche centrali, per rispondere alla crisi finanziaria globale del 2008-2009, sono passate a politiche non convenzionali – in particolare, ricorrendo alle massicce iniezioni di liquidità attraverso il quantitative easing (QE).

La teoria alla base di questa mossa – come esposta da Ben Bernanke, prima di tutto come accademico, poi come governatore della Fed, e infine in veste di presidente della Fed – è che agire sulle dimensioni quantitative del ciclo creditizio è l’equivalente funzionale di una manovra sul fronte dei prezzi. Questa supposizione ha liberato la Fed dal temutissimo “zero bound” che si avvicinava nel 2003-2004, quando, in risposta al collasso della bolla azionaria, ha abbassato il tasso di benchmark all’1%. Se la Fed esaurisse i punti base, a rigor di logica, avrebbe ancora una pletora di strumenti a sua disposizione per sostenere e guidare l’economia reale.

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