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Il comune denominatore del populismo

BRUXELLES – Dopo l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Francia nel maggio del 2017, le élite globali hanno tirato un sospiro di sollievo. Erano convinti che l’ondata populista avesse raggiunto l’apice. Gli elettori avevano riacquistato il buonsenso. Aiutata da un sistema elettorale in cui i due principali candidati si affrontavano in un secondo round, la “silente maggioranza” si era riunita attorno al candidato centrista nel ballottaggio.

Ma ora si svolte le elezioni presidenziali del Brasile, in cui Jair Bolsonaro, che mostra le tendenze autoritarie contro il sistema e contro gli stranieri di un populista da manuale, ha segnato una vittoria schiacciante nel secondo turno. Un sistema elettorale a due turni in cui il ballottaggio mette un outsider populista contro la posizione dell’ultimo candidato principale non è una garanzia, evidentemente, per i centristi.

Una lezione simile arriva dalle elezioni indette all’inizio di quest’anno in Italia. Le regole elettorali del paese sono state trasformate per aggiungere un elemento maggioritario al sistema di rappresentanza proporzionale, con l’obiettivo di incoraggiare la costruzione di una coalizione preelettorale tra i principali partiti. Invece, ha portato a una coalizione tra sinistra e destra populiste. L’ingegneria elettorale, così sembra, non è solo inefficace nel respingere la minaccia estremista, ma può anche avere conseguenze controproducenti o non intenzionali.

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