The logo of the Banca di Roma bank in downtown Rome FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images

Il Cambiamento Radicale di Cui Ha Bisogno l’Italia

FIRENZE – Due mesi dopo le elezioni politiche italiane del 4 marzo, tra le continue incertezze su quale tipo di governo emergerà, sembra che si sia stabilita una strana noncuranza. Tuttavia sarebbe sciocco credere che un paese dove i partiti anti-sistema hanno conquistato il 55% del voto popolare continuerà a comportarsi come se non fosse successo niente. I presunti “barbari” non sono più alle porte. Sono entrati.

Il movimento populista Cinque Stelle, che ha vinto con una valanga di voti nel Sud Italia, ha promesso di aumentare la spesa per investimenti pubblici e trasferimenti sociali, e contemporaneamente annullare la riforma delle pensioni emanata pochi anni fa. Anche il partito della Lega, che ha conquistato il Nord, promette di smantellare la riforma pensionistica, oltre a tagliare le tasse, ed ha apertamente lanciato l’idea di una fuoriuscita dall’euro. Entrambi i partiti vogliono allentare la “camicia di forza” fiscale europea, anche se in modi diversi. Almeno uno dei due è destinato a far parte della coalizione di governo.

Le conseguenze economiche potrebbero essere profonde. Con un rapporto debito/PIL del 132%, le finanze pubbliche italiane sono precarie. Se i mercati dovessero mettere in discussione la loro sostenibilità, la situazione potrebbe degenerare rapidamente e diventare incontrollabile. L’Italia è troppo grande perché il Meccanismo Europeo di Stabilità affronti una crisi del debito nello stesso modo in cui lo ha fatto in Grecia e in Portogallo. La Banca Centrale Europea dovrebbe intervenire in soccorso. Il debito potrebbe persino finire per essere ristrutturato.

Non c’è dubbio, quindi, che l’Unione Europea insisterà sulla disciplina fiscale. La domanda è quale strategia l’Italia dovrebbe adottare per affrontare i suoi problemi di bilancio. Contrariamente a quanto comunemente si ritiene, l’elevato debito pubblico italiano non è il risultato di deficit di bilancio fuori controllo – almeno non di quelli recenti. Ad eccezione del 2009, negli ultimi 20 anni, il saldo primario (che esclude i pagamenti di interessi) è stato attivo. Nessun altro paese della zona euro eguaglia queste performance.

La radice del problema della finanza pubblica italiana sta nell’avere ereditato un debito eccessivamente alto dagli anni ‘80 senza avere registrato crescite economiche significative per due decenni. Il PIL reale (aggiustato per l’inflazione) nel 2017 era allo stesso livello del 2003, e il PIL reale pro capite al livello del 1999. Con un denominatore stagnante, è difficile ridurre il rapporto debito/PIL: l’eredità del passato continua a pesare eccessivamente sul presente.

Un esercizio mentale aiuta a capire il problema dell’Italia. Se la Francia avesse seguito la stessa politica del vicino meridionale sin dal lancio dell’euro nel 1999 – ovvero, se avesse registrato, anno dopo anno, gli stessi saldi primari – il suo debito pubblico sarebbe oggi pari al 45% del PIL, anziché al 97%. La differenza tra i due paesi non è che la Francia sia stata saggia e l’Italia dissoluta. Al contrario. La ragione per cui oggi la Francia ha un debito significativamente più basso è che ha ereditato una posizione di bilancio migliore e sta crescendo più velocemente.

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La lezione, quindi, è che la priorità fondamentale dell’Italia dovrebbe essere il rilancio della crescita. Ma questo non può essere realizzato allentando il freno alla spesa pubblica. La maggior parte dei problemi della crescita italiana viene dal lato dell’offerta, non dal lato della domanda. Come documentato in un recente studio prodotto dalla Banca d’Italia, la performance produttiva del Paese è davvero sconfortante: negli ultimi due decenni, la produzione per addetto è diminuita dello 0,1% annuo, rispetto ad aumenti dello 0,6% in Spagna, 0,7% in Germania e 0,8% in Francia. Inoltre, le prospettive demografiche sono spaventose: la popolazione in età lavorativa, attualmente allo stesso livello della fine degli anni ‘80, è destinata a diminuire dello 0,5-1% all’anno nei prossimi anni. L’onere di rimborsare il debito ricadrà su una forza lavoro minore, a maggior ragione se l’età pensionabile viene abbassata.

Aumentare la produttività è quindi imperativo. Sulla carta, la ricetta per il successo sembra diretta: la politica economica dovrebbe mirare a ridurre il divario tra le imprese più grandi, le cui prestazioni corrispondono a quelle dei loro omologhi tedeschi o francesi, e quelle più piccole, dove la produttività è dimezzata. Le piccole aziende di tutto il mondo sono meno produttive delle grandi imprese – dopo tutto, la crescita è un processo di selezione – ma la peculiarità italiana è che queste imprese sono sia molto meno efficienti che molto più numerose. Per ogni “campione” d’innovazione che vende prodotti all’avanguardia sul mercato globale, ci sono molte aziende mal gestite con meno di dieci dipendenti che producono solo per il mercato locale. È questo alto grado di frammentazione che spiega il modesto andamento complessivo dell’Italia.

Due economisti italiani che insegnano negli Stati Uniti, Bruno Pellegrino e Luigi Zingales, hanno indagato su cosa può spiegare questa particolare situazione. La loro conclusione è che né gli sviluppi settoriali, né i vincoli di credito, né la regolamentazione del mercato del lavoro possono spiegare gli andamenti della produttività registrati. Al contrario, essi sottolineano la gestione familiare delle imprese più piccole e la tendenza a selezionare e premiare le persone sulla base della fedeltà invece che per merito. Come dicono loro, il familismo e il clientelismo sono le cause ultime della malattia italiana.

Queste osservazioni hanno implicazioni dirette per i futuri confronti tra il prossimo governo italiano e i suoi partner europei. Questi ultimi farebbero bene a porre in cima all’agenda la necessità di una politica di crescita e produttività, invece che la semplice aderenza ad obiettivi di bilancio. E dovrebbero concentrarsi sulle riforme più importanti, invece che su una lunga lista dei desiderata con prescrizioni standard.

È difficile valutare se il governo italiano che emergerà dai negoziati in corso sarà pronto a rispondere. Tutti i partiti politici hanno clientele di cui prendersi cura, e gli insorti non fanno eccezione. Potrebbero essere riluttanti a inghiottire la dura medicina di cui l’Italia ha bisogno. Ma dovrebbero rendersi conto che sebbene possano essere popolari, le proposte distributive senza copertura finanziaria alla fine si dimostreranno inefficaci, soprattutto se il problema della produttività non viene affrontato in modo diretto. Le rotture politiche a volte forniscono opportunità uniche per affrontare problemi apparentemente intrattabili. La chance di un esito simile potrebbe essere esile, ma non dovrebbe essere ignorata. Dopo il terremoto politico, l’Italia ora ha bisogno di un radicale cambiamento economico.

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