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La sfida del “buon posto di lavoro”

CAMBRIDGE – In tutto il mondo, oggi, la sfida cruciale per garantire una prosperità economica inclusiva è quella di creare un sufficiente numero di “buoni posti di lavoro”. Senza un’occupazione sicura e ben pagata per la stragrande maggioranza della forza lavoro di un paese, o la crescita economica rimane elusiva oppure i suoi benefici finiscono per essere concentrati nelle mani di un’esigua minoranza. La scarsità di buoni posti di lavoro lede anche la fiducia nei confronti delle élite politiche, così alimentando il contraccolpo autoritario e nazionalista che oggi colpisce molti paesi.

La definizione di “buon lavoro” ovviamente dipende dal livello di sviluppo economico di un paese. Solitamente si tratta di una posizione stabile del settore formale che garantisce tutele lavorative come condizioni di lavoro sicure, diritti di contrattazione collettiva e normative contro il licenziamento arbitrario. Consente lo stile di vita della classe media, secondo gli standard di quel paese, con un reddito adeguato a coprire le spese di vitto, alloggio, trasporto, istruzioni e altre spese familiari e ad accantonare risparmi.

Le singole aziende di tutto il mondo possono fare molto per migliorare le condizioni d’impiego. Le grandi società che trattano meglio i propri dipendenti e offrono un salario più alto, più autonomia e maggiore responsabilità, spesso raccolgono i benefici sotto forma di calo del fatturato, morale più alto dei lavoratori e maggiore produttività. Come sostiene da tempo Zeynep Ton del MIT, le strategie per il “buon lavoro” possono essere tanto redditizie per le aziende quanto per i lavoratori.

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